Quando la stabilità diventa una prigione
- Simone Marchetti
- 20 feb 2023
- Tempo di lettura: 3 min
Ho sempre avuto una discreta tolleranza al dolore fisico. Tagli, fratture, piccoli o grandi incidenti di percorso: non sono mai stato uno di quelli che si lamentano. Stringo i denti, vado avanti. Il dolore lo sopporto, punto.
Ma c’è un altro tipo di sofferenza che, al contrario, riesce a scalfirmi molto più in profondità: quella generata dalla stasi. Quando sento che sto sprecando tempo, che le giornate scorrono senza alcun reale avanzamento verso qualcosa che abbia un senso per me… lì entro in crisi.
Il mio problema non è la fatica. È la mancanza di direzione.
Se mi trovo dentro a un contesto in cui, per quanto mi impegni, non intravedo nemmeno un barlume di evoluzione, inizio a scalpitare. E non mi riferisco ai giorni no o ai periodi fiacchi — quelli capitano a tutti. Parlo di situazioni in cui il copione è sempre lo stesso, e nulla cambia davvero. Quella lenta erosione dell’entusiasmo che ti svuota da dentro senza che tu te ne accorga subito.
Certo, un po’ di routine è inevitabile. Nessuno può vivere ogni singolo giorno sull’onda dell’ispirazione e dell’adrenalina. Ma almeno per me, ogni scelta, anche la più ripetitiva, deve avere un perché. Deve servire a qualcosa. Anche se il cambiamento non è immediato, devo avere la sensazione di star andando da qualche parte.
Altrimenti no, non ce la faccio.
Non importa quanto buono sia il contratto, quanto stabile il contesto o quanto rassicurante sia la promessa di un futuro "sicuro". Se le giornate iniziano a diventare fotocopie l’una dell’altra, se mi sento incastrato in un percorso che non porta da nessuna parte... scatta qualcosa. E quel qualcosa, alla lunga, mi obbliga a cambiare.
Negli ultimi anni ho rivisto e ricalibrato più volte la mia traiettoria lavorativa. Ogni volta che una strada sembrava non portarmi dove volevo, ogni volta che l’energia si spegneva senza risultati concreti, ho sentito l’urgenza di invertire la rotta. Non senza dubbi, non senza fatica, ma sempre con la consapevolezza che restare fermo sarebbe stato peggio.
Mi è stato detto più volte: “Dovresti accontentarti. Almeno hai un lavoro, cosa vuoi di più?”
Ma non si tratta di essere ingrati. Si tratta di non voler svendere la propria vita alla comodità. E, col senno di poi, ogni passo fatto, anche quelli sbagliati, è stato parte di un percorso che rifarei ancora.
Con il tempo ho imparato anche a convivere con l’attesa, ad accettare la lentezza in alcune fasi. Non tutto si muove alla velocità che vorremmo, e a volte è necessario mettere da parte l’impazienza. Ma attenzione: tollerare i tempi lunghi è una cosa, anestetizzarsi in un presente senza prospettiva è un’altra.
Ed è proprio quella insofferenza, quella frustrazione che sale quando senti di essere fuori rotta, che mi ha salvato più volte. Perché il vero nemico del cambiamento non è la fatica, è la tolleranza eccessiva verso ciò che non ci fa più crescere.
Se vivi una vita che non ti stimola, che non ti rispecchia, che ti spegne a poco a poco, ma riesci comunque a tollerarla, sarà difficile che qualcosa cambi. Non per mancanza di possibilità, ma per mancanza di urgenza.
Ecco perché penso che l’insofferenza sia, in certi casi, un dono. È il motore che ti spinge a cercare altro, a rompere schemi apparentemente comodi ma vuoti. È la miccia che accende la voglia di riscrivere il copione. E senza quella miccia, rischi di restare fermo una vita intera.
Non è facile, non è comodo. Ma se vuoi davvero cambiare, restare fermo deve farti male.