Perchè "votare il meno peggio" è un alibi, non una scelta
- Simone Marchetti
- 26 set 2022
- Tempo di lettura: 2 min
– “Tu chi voti?”
– “Il meno peggio, credo…”
– “Eh, pure io…”
Quante volte abbiamo sentito (o detto) questo scambio? È diventato quasi un mantra nazionale, una giustificazione automatica, una pacca sulla spalla data a sé stessi per sentirsi adulti e coscienziosi. Anch’io, lo ammetto, mi sono rifugiato nel “voto il meno peggio”. Poi, però, mi sono chiesto: ma davvero questa è una scelta consapevole? O è solo un modo elegante per scrollarsi di dosso la responsabilità?
Dietro questa frase apparentemente innocua si cela un pensiero ben più problematico: “Non ho voglia (o tempo) di informarmi, tanto sono tutti uguali. E se le cose andranno male, almeno avrò la scusa pronta: lo sapevo che facevano tutti schifo.” È una forma di autodifesa. Un alibi morale.
Il punto, però, è che dire “meno peggio” presuppone comunque un minimo di analisi, un confronto tra proposte, candidati, programmi. Ma guardando ai numeri e alle dinamiche elettorali, viene il dubbio che questo confronto spesso sia solo immaginario. Ci limitiamo a scegliere chi urla meno, chi ha il logo più rassicurante, chi ci fa arrabbiare un po’ meno. È questo il criterio?
Quello che davvero mi spaventa non è la vittoria di una coalizione che all’estero ci fa sembrare un meme vivente, né l’opposizione che parla solo per slogan e ideali astratti. Mi inquieta constatare che, regolarmente, a vincere siano coloro che investono tutto sulla pancia dell’elettorato, su promesse vuote e parole d’effetto da talk show. Il “buonsenso” è stato sostituito dal “dire quello che la gente vuole sentirsi dire”. E noi glielo lasciamo fare.
Qualcuno dirà: “Ma la democrazia è anche questo. Ognuno ha il diritto di votare per chi vuole.” Ed è vero. Nessuno mette in discussione quel diritto. Ma bisogna anche essere pronti ad accettarne le conseguenze. Perché se oggi premiamo l’incompetenza e domani ne paghiamo il prezzo in termini di debiti, economia, credibilità, allora è giusto riconoscere che quel voto, anche se dato “al meno peggio”, è parte del problema.
Votare non è un obbligo meccanico da assolvere con superficialità. È, o dovrebbe essere, un atto di consapevolezza. E finché continueremo a considerarlo un fastidio da risolvere col pilota automatico, continueremo ad affidarci a chi sa vendersi meglio, non a chi saprebbe fare meglio.