La violenza non ha genere, ha solo vittime
- Simone Marchetti
- 6 feb 2024
- Tempo di lettura: 3 min
Aggiornamento: 12 apr
In questi giorni, le bacheche si riempiono di frasi come "Nel 2024 dobbiamo ancora sopportare tutto questo?". E ogni volta che leggo quelle parole, dentro di me si accende qualcosa. Un misto di rabbia, tristezza e incredulità. Come se il dolore, l’ingiustizia e la violenza fossero una novità di oggi. Come se davvero bastasse il passare degli anni per guarire ciò che è marcio nell’animo umano.
La verità è che non siamo migliori di ieri. Forse lo siamo in alcune cose, ma in tante altre, troppe, abbiamo fatto passi indietro. Ci illudiamo che la civiltà coincida con la tecnologia, con la velocità, con le leggi scritte. Ma l’evoluzione vera – quella che conta – è quella che riguarda il cuore, la coscienza, la capacità di stare al mondo. E lì, siamo ancora troppo spesso primitivi.
Si cerca un colpevole collettivo: il patriarcato, la cultura, l’uomo. E ci si scaglia contro tutto e tutti come se bastasse questo a cambiare le cose. Ma la realtà è un’altra, più cruda, più semplice, più difficile da digerire: la violenza non ha genere. Ha solo colpevoli. E vittime.
La storia è piena di persone buone e persone cattive, donne e uomini, vecchi e giovani, potenti e poveri. Non serve un nemico astratto. Serve il coraggio di guardare in faccia chi sbaglia e dirgli: “Tu sei il problema. Non il tuo sesso, non la tua cultura. Tu, come individuo.”
Ogni volta che una donna viene uccisa – come è successo a Giulia, come succede purtroppo ogni pochi giorni – ci indigniamo. E va bene. È giusto. Ma poi, passato il clamore, torniamo a indossare le maschere del buonismo, della tolleranza, della giustizia “per tutti”. E chi sbaglia, resta spesso impunito o giustificato.
Ci siamo abituati alla logica dell’ondata: un femminicidio ci colpisce, urliamo, piangiamo, facciamo fiaccolate… e poi ci dimentichiamo. Fino al prossimo. Ma questa è solo anestesia temporanea. Non è una cura.
Il male non si combatte con le emozioni del momento. Si combatte con fermezza. Con lucidità. Con una giustizia che non tentenna. Le mele marce non vanno compatite. Vanno tolte dal cesto, prima che marciscano tutto il resto. Non serve odio. Serve determinazione. Chirurgica. Pulita. Inequivocabile.
E no, non voglio banalizzare. Non sto dicendo che la cultura, l’educazione, la società non abbiano responsabilità. Ma le responsabilità vanno trattate con intelligenza, non con ideologia. Non serve insegnare il rispetto “per le donne”, serve insegnare il rispetto. Per tutti. A prescindere. Perché ogni volta che si fa una classifica su chi merita più tutela, più compassione, più attenzione, si perde il senso stesso della giustizia.
La narrazione, spesso, è tossica. E polarizzata. L’uomo diventa carnefice per definizione, la donna vittima per statuto. Ma non è sempre così. Ci sono uomini abusati, umiliati, uccisi, che non fanno notizia. Perché non rientrano nello schema. E così il dolore si nasconde, si nega, si cancella.
Ma il dolore non è selettivo. Non ha bandiere. È dolore. Punto.
E no, non sono rassegnato. Sono lucidamente consapevole. So che il male esiste e continuerà a esistere. Ma so anche che possiamo fare di più. Dobbiamo fare di più. Ma non urlando slogan o cercando colpevoli collettivi. Dobbiamo farlo guardando negli occhi chi sbaglia e agendo, senza alibi, senza esitazioni.
Non serve un mondo perfetto. Serve un mondo più giusto. E la giustizia, quella vera, non è cieca. È vigile. È presente. È pronta.
Smettiamola di dividere. Iniziamo a scegliere: tra ciò che è giusto e ciò che non lo è. Tra chi costruisce e chi distrugge. Tra chi ama e chi ferisce.
E allora, forse, davvero, potremo dire che qualcosa è cambiato.